di Max Borg

C’è un tradimento nel titolo italiano di The Death and Life of John F. Donovan, il settimo lungometraggio di Xavier Dolan, ma è un tradimento che a suo modo riflette meglio la natura del film: se infatti è vero che, come nel titolo originale, la storia inizia con l’annuncio del suicidio di John F. Donovan (Kit Harington) e prosegue con la ricostruzione della sua vita, l’appellativo italico La mia vita con John F. Donovan pone l’accento sulla figura di Rupert Turner (Jacob Tremblay da bambino e Ben Schnetzer da adulto), il cui rapporto epistolare con Donovan è la vera anima del film.

 

Una vita travagliata

Quella di Donovan e Turner è una vita travagliata, come lo è stata quella del lungometraggio stesso: girato in due blocchi e tre città (Montreal, Londra e Praga) tra l’estate del 2016 e la primavera del 2017, il progetto ha richiesto oltre un anno di post-produzione, spingendo Dolan a rinunciare al consueto appuntamento con il Festival di Cannes e continuare a lavorare al film dopo averlo mostrato in versione provvisoria al comitato di selezione.

La mia vita con John F. Donovan ha quindi debuttato nel settembre del 2018 al Festival di Toronto, per poi arrivare nelle sale a partire dal marzo 2019, a cinque anni dall’annuncio iniziale e senza Jessica Chastain, il cui volto aveva impreziosito uno dei primi poster (la sua parte è stata tagliata per questioni di ritmo e durata, ha spiegato il regista).

Per il suo primo film in lingua inglese, Dolan affronta di petto la questione della fama e del mondo dello spettacolo. Al netto dello spostamento dalla provincia canadese ad ambienti più tradizionalmente hollywoodiani, il cineasta si muove chiaramente, ancora una volta, in territori molto personali: avendo iniziato a recitare da piccolo, sia davanti alla macchina da presa che come doppiatore (sua la voce di Ron Weasley nella versione quebecchese della saga di Harry Potter), Dolan si riconosce chiaramente nel giovanissimo Rupert, accompagnato dalla sempiterna presenza al contempo affettuosa e ingombrante della madre (Natalie Portman).

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Anche John, in una fase diversa della carriera, è per certi versi un alter ego del suo creatore, e anche lui deve fare i conti con una figura materna scomoda, interpretata da Susan Sarandon.

Di famiglia, di fama, di morte

La famiglia, la fama e la privacy attraversano una riflessione malinconica sulla vita (e la morte) delle star, ma non manca un filo d’ironia: Harington, uno dei protagonisti di un autentico fenomeno televisivo come Il trono di spade, serie nota per le sue ambizioni e il suo budget sempre più consistente, è qui trasformato nel divo di un altro programma di genere, ma decisamente più modesto.

Siamo dalle parti del teen drama alla Roswell o Smallville, il che mette anche alla berlina la tendenza dei network e degli studios statunitensi a servirsi del Canada come luogo di riprese per ragioni economiche (New York è spesso e volentieri ricreata a Vancouver).

004Gli spezzoni della serie all’interno del film hanno un sapore decisamente vintage, quasi una lettera d’amore di Dolan al tipo di televisione con cui è presumibilmente cresciuto.

E vintage lo è proprio tutto il lungometraggio, non solo per la scelta di girare in pellicola, dando al tutto una tangibilità d’altri tempi: vediamo il film nel 2019, ma potrebbe tranquillamente essere un prodotto di due decenni fa, come sottolinea l’accompagnamento musicale dei titoli di coda (Bitter Sweet Symphony, brano del 1997 che al cinema aveva già assolto una funzione simile al termine di Cruel Intentions).

È una sinfonia agrodolce, quella di John e Rupert, ma anche di Xavier, cineasta in trasferta che dimostra nuovamente di saper infondere la sua personalità anche quando si discosta dalle atmosfere natie del Québec.

La mia vita con John F. Donovan ti aspetta al cinema in queste sale!